Caro amico,
non conto i giorni di lontananza, forse quanti sono i passi che ci separano.
Io, imbarcato per mare, sono giunto in terra albanese al comando del Gen. Bertotti. Stiamo interrati, contorti come ulivi e immobili, tutto è arido intorno a noi. La ferita si è rimarginata e rimane solamente il segno di quel dolore, come se la morte avesse voluto firmare il suo contratto con la mia vita. La guerra ha le proprie armi e noi siamo l’archibugio che imbraccia un orgoglio che non ci appartiene, ma al quale rispondiamo con la nostra o “quale altra vita?” Sento sibilare i colpi sui quali non v’è scritto nessun nome, sono scagliati nel buio delle motivazioni, nella polvere dei passi, poiché tanto è il timore di essere offesi che il colpo parte senza nessun’altra pretesa.
Ricordo, come fosse solo un sogno, quando com’ora nei lunghi inverni, furono le guerre di neve ad essere scagliate senza alcun livore, con sola la speranza di errare colpiti a nostra volta. I confini, a costo delle mani gelate che difendevamo, erano le rogge gelate o asciutte degli appesantiti campi. Il richiamo lontano delle urla dei nostri genitori, era la promessa di un castigo che nasceva dalla menzogna, poiché basato sul presupposto di ciò che sarebbe accaduto. Le risate, prima ancora del battipanni, erano il calore che svernava in colore. Ricordi quei tempi di spensierata sete? Quando le parole di un libro eran ladre d’attenzione e gli occhi eran specchi sul futuro, umidi di speranza. Il calamaio, credevo che mai potesse inaridirsi, e che sul banco il pennino riposto perdesse la punta, consunta e colpita dal tempo, come le palle di cannone i campanili portan via. Sotto il banco avrei pensato di coltivare il mio tempo. Oggi quella seduta è smarrita tra i ricordi che il viaggio, poco a poco, sopisce così come la china sbiadisce. Oggi, non v’è neve a ricoprir queste terre, ma passi, la cui fine non sarà il fato a dettarne la distanza, ma la paura d’un altro uomo nel cui cuore non alberga odio, ma terrore.
In queste notti in cui il timore dell’alba è premente sul mio petto, molto ho riflettuto su quanto siano diversamente simili le parole “errore ed orrore”, e quanto questo orrore sia un errore. Un errore esser nato uomo, aver ricevuto in dono la capacità di concepire meraviglie e averne coscienza, se poi muoio ogni giorno di terrore. Abbiam la vita nelle lacrime di qualcun altro.
Così, come nei tempi della nostra gioventù, presto ho desiderio di riabbracciarvi, tornare alla costruzione dei nostri campi e al loro aratro, la cui unica fatica sarà dare vita alla vita.
Nonostante io non creda in un Dio collerico e la cui misericordia è legata ai fianchi della predica, prego per voi e per la vostra salute.
Con rinnovato affetto,
il vostro amico.
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