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Immagine del redattoreRoberto Ernesto Pacis

1° Isabella



E, ora che ci penso, non più di pochi batter di ciglia al mondo ho vissuto, che il rimembrare di tale ricordo m’appare come fosse lungi da me nel tempo, come di lei la veste aderente al presente.

Quegli occhi così luminosi, così vivi tra tanti spenti.

Era lì ricurva, con un ginocchio a terra ed una mano sul petto d’un povero caduto, esanime, come una speranza infranta. Un’infermiera, probabilmente del nord, con i capelli raccolti al capo, coperto da una calotta ormai frusta, bigia, ma da cui un ribelle filo dorato pendeva madido di giorni che del viverli avremmo fatto a meno. La vidi esile, graziosa, con la vita troppo stretta per esser stata madre, ma le cui linee fiorite parevano perdere i confini negli occhi suoi, come in un campo fiorito. Le spalle, ricurve e appesantite dalle cure, chiudevano un cuore di certo grande e benevolo e sulle quali, una pesante veste, il petto tratteneva.


Oh, è triste ora quel miraggio che, il brullo campo ruvido e ferito, preme sotto le nostre paure! Quante parole taciute, quanti "perché" ancora intrecciano i cuori. In uno sguardo, la differenza tra il lamento delle alcove e la natura umana non troppo lontana, quando la vidi pallida e irresoluta, con la divisa sua che del bianco e delle ricamature n’aveva solo il ricordo.


Ora che ci penso a quegli occhi bagnati da un pianto arido. Non so perché, ma la vidi ape brusire di fiore in fiore e coglierne il nettare. La vidi su d’un fiore, poi s’un altro e, sul volto di quel fiore, vidi il mio. Scosso, mi smarrii e mi vidi perito, riverso nella vita che con il sangue m’abbandona, mi sentii lamentoso tra i radi ciuffi d’erba impolverata e fra i ciottoli sparsi levigati dal pianto di vite dimenticate. Le gambe vollero cedere e attesero che il ciel s’aprisse ai miei occhi, mentr’ il fiato la cheta polvere smuoveva a preparare l’ultimo giaciglio.

Lei s’avvicinò.

La sentii. Sentii i suoi occhi posarsi su di me, sentii la fresca primavera della vita che non può esser domata. Sentii il mio corpo svanire e le lessi nello sguardo timore, paura. Avrei voluto stringerle forte le mani e portarla via, lontano; oltre le scintille della morte, oltre l’odore premente della polvere da sparo, oltre il clangore delle truppe che muovono i colli. Un rivo d’acqua fresca, oltre la luce; lei ristette. La guardai e le dissi “grazie”, non ero sicuro che m’avesse capito, ma un leggero sorriso, un fiore tra le gote e le labbra impolverate e grondanti madore e dolore, nacque.

Nel posto più insensato, nell’assurdità della natura umana, la natura stessa ci dona la propria bellezza.

La cercai con gli occhi ancora un poco e rischiai d’annegare in quello sguardo tanto che dovetti risalire e prender fiato. “Maledetta guerra!”


Crudele crudeltà che sfiorisci la vita e così in fretta mi pari al giudizio, a responsabilità che mai chiederei, a pensieri ottobrini che mai comprerei. Io, che al cuor mio mento e taccio, che tingo tele di primavere ad ogni passo, a cui lego mondi mai finiti.

Sogni riposti dietro un muretto, caduto a metà ai piedi d’un faggio, sotto un piccolo sasso ivi rotolato, alle irte pendici dei monti di Trento, qui, alla mia terra e alle pianure padane che corrono a tuffarsi nel mar di Venezia, sorrido. Sì, era un sorriso.

Poi, i passi cominciarono a divenire molti, sempre più, fino a che la vidi svanire e mi sentii sollevare dal peso del terreno premio di me.

Avrei voluto gettarmi a terra per trattenermi ancora, per un solo respiro, uno solo, ora che il dolore avea disegnato sul mio tempo una trincea di speranze chiamate “amore“.


tu, compagna d’uno sguardo, anima nell’anima, con un filo di fiato tesso il mio fato, il tuo nome, Isabella.

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